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LA FATTORIA DI POMONTE



Monumento storico da salvare

Era il giorno di Natale dell’anno 1577.

Mario Sforza, conte di Santa Fiora, nella splendida villa ai piedi di boscose e selvagge colline, circondato da una schiera di sudditi e cortigiani, firmava con il suo sigillo la lettera che andrà a far parte del cap. LVI, libro terzo, dello “Statuto della terra di Scansano“.
L’illustre signore della contea di Santa Fiora, sotto la quale era Scansano, era solito recarsi nella sfarzosa villa di Pomonte per brevi periodi dedicati alla caccia che le macchie del luogo generosamente offrivano per la delizia di una così nobile compagnia.
In un disegno pervenuto fino a noi, nel 1582 la villa aveva proporzioni superbe e forme eleganti esaltate dal verde cupo dei cerri e delle querce che la nascondevano agli occhi di qualunque rivale avido di possessi.
Erano quelli, per tutto il Comune, anni di benessere e grandioso sviluppo. Lo stesso Scansano veniva visitato dai Conti e da altri nobili che vi trovavano aria salubre e generosa ospitalità.

Le campagne circostanti apparivano curate e costantemente coltivate ad ulivi e viti tanto che numerosi furono i villaggi che sorsero alla periferia del paese.
Il territorio di Pomonte rimase invece al suo stato naturale: terra coperta da fitte macchie dove il cinghiale regnava sovrano e la numerosa selvaggina trovava spazi infiniti di libertà, turbata solamente per il divertimento del suo signore.
Alcuni servitori e guardiani assicuravano al territorio quelle cure necessarie al fine di poter conservare integre queste caratteristiche. La zona di caccia arrivava a toccare l’abitato di Murci ed era attraversata da una dogana che dall’Amiata conduceva al mare.
La villa sforzesca era quindi un punto obbligato sia per chi dalla montagna scendeva verso la pianura, sia per chi dall’abitato di Manciano voleva raggiungere Scansano.
Quando nel 1600 la contea passò nelle mani dei Medici anche le sorti di Pomonte subirono un cambiamento.

Le grandi tenute, un tempo curate da valide amministrazioni, a poco a poco furono abbandonate e i territori un tempo sfolgoranti di selvaggia bellezza divennero preda dell’incuria e della malsana politica agraria. Alla fine del 1600 i Medici affidarono la tenuta di Pomonte alla famiglia degli Avuni che la trasformò in una bandita per il bestiame brado. Gli stessi trasformarono l’antico padiglione di caccia nella monumentale fattoria che tutti conosciamo e per gran parte del secolo 18° secolo, padroni assoluti del vasto territorio, non ne curarono la bonifica se non per aumentare la loro ricchezza.
Solamente le zone prossime a Scansano, Poggioferro e Murci, verranno piano piano disboscate, sottoposte al salutare beneficio del fuoco e alla lenta concimazione della cenere.
I braccianti che così duramente tentarono di lavorare queste zone furono vittime della malaria che nel frattempo imperversava nella pianura, ormai lasciata in un pauroso abbandono.
L’avvento dei Lorena, succeduti ai Medici nel governo della Toscana, significherà, sopratutto per l’agricoltura, l’inizio di un periodo migliore grazie anche alle riforme di Leopoldo II che portarono alla sistemazione di molti terreni.

Nelle campagne si andrà piano piano riorganizzando una vita stabile, necessaria all’uomo che con fatica ha trasformato il fondo disboscando, concimando, mettendo a coltura.
Intorno alla fattoria nascono quindi per necessità diverse strutture poderali nelle quali la famiglia si fissa per l’intero anno portando a compimento i lavori.
Nella zona di Pomonte, legati indissolubilmente alla vita della fattoria, sorgono intorno alla prima metà dell’800 quattro grossi centri poderali: Poggio Carlino, Poderuccio, Le Tornicelle, Vaccareccia. Qui, tartassati dalla sete, dalle zanzare, dalla terribile perniciosa che devastava le famiglie, vissero i primi coloni di questa terra oggi così provvida e generosa.
Lontana, irraggiungibile, mitica quasi, esisteva la superba casa dove, alla luce di centinaia di candele, si consumavano, nelle serate di gala, cene sontuose.
Alla fine dell’800 la famiglia Avunti cedette la fattoria, ben 3500 ettari, a Filippo Pellegrini, grande prelato ed elemosiniere della Sacra Rota.
La casa continuò a riempirsi di ospiti illustri che la affollavano sopratutto a Maggio, nel periodo della merca del bestiame. Allora i vasti spiazzi intorno al fosso divenivano la sede di un suggestivo spettacolo dove l’uomo, in lotta con l’animale, furiosamente cercava di affermare la sua supremazia.

Una fitta schiera di lavoranti stagionali: braccianti, mietitori e frattaioli scendevano giù dalla montagna in ogni tempo in cerca di guadagno che permettesse di sopravvivere alla famiglia rimasta al paese.
Quanto quel guadagno coincidesse invece con l’acquisto della malaria, è facile intuirlo.
All’arrivo dell’estate lunghe file di uomini con i cappelli di paglia sfilacciati e stinti dal sole, con lunghi calzari bianchi di polvere, le falci protette da strette fasciature di panno, si riversavano nella pianura e, giorno dopo giorno, dalle prime luci dell’alba all’ultimo bagliore del sole al tramonto, spogliavano questa terra del suo manto dorato.
Né i canti delle donne che accompagnavano servivano a mitigare la fatica. Donne con le lunghe sottane protette da grembiuli di panno bianco, la cui voce sapeva di pianto, di tristezza, di miseria, donne con la schiena dolorante, la gola secca per il calore e la polvere, con il cuore gonfio di desideri repressi.
A sera il piazzale della grande casa accoglieva le chiacchiere, i canti, gli scherzi di questa gente accomunata dalla stessa fatica di vita. Lì il buttero ricordava la lunga corsa nel fitto della macchia dietro all’ultimo vitello ribelle; al lume della luna un giovane montanaro inviava il suo dolce stornello all’innamorata lontana; lì, seduti sulle pietre ancora calde di sole, i mietitori lasciavano riposare le braccia pesanti e i loro rimbrotti scherzosi arrossavano le guance delle giovani donne.

All’alba la fattoria lentamente si gonfiava di vita.
Nella carraia i pesanti martelli si abbattevano sui cerchioni di ferro dei carri, sotto l’ombra di un albero girava la mola dell’arrotino, dal bucataio giungeva lo sciabordare dell’acqua nelle pesanti conche, mentre la mannaia dell’abile cuoca, ritmicamente, sul tagliere, spezzava le tenere costole dell’agnello appena sacrificato.
Nella buia stanza, tra l’acuto odore del cuoio, il sellaio inchiodava bollette sulla rozza sella del buttero e dalla finestra aperta, incessante, giungeva il ticchettio della macchina su cui la sarta lasciava scorrere la lunga tela per tovaglie e lenzuola.
Per giorni i saloni vivevano nell’attesa di eleganti ospiti dalla bianca paglietta, di gentili dame adorne di pizzi e velluti.
Il maestoso camino languiva nel desiderio che alla sua vivida fiamma vecchi signori stirassero le ossa scricchiolanti.

E perché tutto questo continuasse a vivere, laggiù nelle vaste praterie branchi di bestie dalle corna lunate pigramente affondavano i musi umidi nella soffice terra, e tori dal nero mantello furiosamente raspavano la polvere.
Quando d’inverno la pioggia batteva sugli antichi muri, quasi sempre le grandi stanze rimanevano buie e il silenzio regnava pigro ai piani superiori della casa.
Allora solitaria e triste, era la vita nei poderi vicini.
Più nessuno percorreva le tortuose carrarecce e vecchi e bambini, accanto al focolare, lentamente consumavano l’ispida polenta. In certe sere la tramontana fischiava furibonda e all’uscio scricchiolante battevano uomini dalla folta barba, tra le cui giubbe fradice di pioggia spuntavano luccicanti fucili.
Dividere con essi il già magro pasto era un dovere che permetteva di continuare quella pur misera vita e dava tuttavia libero accesso a strani diritti di protezione contro ogni sopruso.
Quella alleanza tra pace e prevaricazione, tra povera onestà di vita e aggressivo sovvertimento della realtà, portava a situazioni a volte di insperato benessere per le famiglie dei contadini; un piatto di acquacotta poteva essere ripagato con l’agnello, frutto dell’ultima rapina di quegli oscuri amici.
Quando anche l’ultimo brigante fu cacciato per sempre dal Forteto di Pomonte, forse per la prima volta, il contadino conobbe la solitudine. Al rinverdire della macchia, quando il cuculo torna con il suo canto, il fagiano ha già pronta la sua covata, la vita riprendeva la sua consueta drammaticità e il lavoro , fattosi di nuovo stressante, consumava l’uomo di vera fartica.
Il ‘900, cosi come silenziosamente era entrato, silenziosamente trascorreva e la vita della fattoria continuava inalterata anno dopo anno finché le tecniche non sostituiranno all’uomo le macchine, finché leggi più giuste non porteranno cambiamenti nei quotidiani rapporti di lavoro. La superba villa, senza nuovi padroni, avrà ancora barlumi di splendore, ma saranno gli ultimi. Il resto è storia da mestiere. La fattoria, abbandonata a se stessa per lunghi anni, è piombata come tanti monumenti in un pietoso stato di decadenza. Secoli di storia sono passati su di lei e altri potrebbero forse venire se l’occhio umano fosse capace di discernere, tra le situazioni contingenti, quelli che più hanno avuto un ruolo nella storia del lavoro umano.